Covid-19: la storia della vitamina D miracolosa

Tra le varie soluzioni proposte, più o meno promettenti, per prevenire e curare la Covid-19, ha cominciato a circolare, anche in ambiento scientifico, che la vitamina D possa procurare qualche tipo di beneficio.

Tutto nascerebbe dalla notizia del 26 marzo secondo cui alcuni ricercatori dell’Università di Torino avevano iniziato uno studio per valutare l’efficacia della vitamina D per la Covid-19, perché nei ricoverati erano stati registrati bassi livelli di quella vitamina.

A cosa serve la vitamina D

La vitamina D è presente naturalmente nei pesci grassi (salmone, tonno, anguilla, sardine, pesce spada), nell’olio di fegato di merluzzo, nei tuorli d’uovo, nel fegato di manzo e in alcuni tipi di funghi. La maggior parte dell’introito viene però garantito al nostro organismo dall’esposizione ai raggi solari. In generale, la vitamina D da una parte aiuta il corpo ad assorbire il calcio dagli alimenti (ed è quindi utile nella calcificazione delle ossa), dall’altra contribuisce a mantenere nella norma i livelli di calcio e di fosforo nel sangue.

Come agirebbe contro la Covid-19?

Esistono dati a favore di un possibile effetto positivo della vitamina D sullo sviluppo delle infezioni respiratorie, ma il passaggio dagli studi in vitro alle ricerche sperimentali è stato deludente rispetto alla grande maggioranza degli effetti extrascheletrici del colecalciferolo (cioè la forma di vitamina D autoprodotta dalla cute con l’esposizione al sole).

Si è parlato anche di una presunta azione di stimolo sulla risposta immunitaria (ma i risultati degli studi clinici sono contrastanti) e di un ipotetico effetto antivirale. Più di recente, in ambito endocrinologico, qualcuno è arrivato a sostenere che la carenza di vitamina D sarebbe alla base dell’alto tasso di mortalità da Covid-19 nell’Italia settentrionale, in Lombardia in particolare. Ma l’orientamento attuale è quello di considerare la carenza di vitamina D più un effetto che la causa della malattia e delle cattive condizioni del paziente.

In conclusione, la somministrazione di vitamina D per combattere l’infezione da SARS-CoV-2 o migliorarne l’evoluzione polmonare va considerata una pratica a oggi non sostenuta da evidenze scientifiche convincenti.

Fonti